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16/10/2025 @ 10:15:38
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Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
 
 
Articoli del 16/10/2025

Di Alex (pubblicato @ 10:00:00 in Misteri, letto 2 volte)
Una rappresentazione artistica di un disco volante precipitato nel deserto del New Mexico, con detriti metallici sparsi al suolo.
Una rappresentazione artistica di un disco volante precipitato nel deserto del New Mexico, con detriti metallici sparsi al suolo.

Nel luglio del 1947, qualcosa precipitò in un ranch vicino a Roswell, New Mexico. Da allora, l'incidente è diventato il caso più iconico e dibattuto della storia dell'ufologia. Ma cosa accadde veramente? Analizzando i fatti storici e le spiegazioni ufficiali fornite dall'aeronautica militare statunitense, è possibile tracciare un quadro molto più terrestre, seppur affascinante, di un evento trasformato in leggenda dal folklore e dalla segretezza militare. ARTICOLO COMPLETO

I fatti iniziali e il comunicato stampa
Tutto iniziò quando un allevatore, W.W. "Mac" Brazel, scoprì un campo di strani detriti metallici e di gomma. Informato lo sceriffo locale, la questione arrivò rapidamente alla base aerea di Roswell, che inviò il maggiore Jesse Marcel a investigare. Inizialmente, l'esercito emise un comunicato stampa sensazionale, annunciando il recupero di un "disco volante". Tuttavia, poche ore dopo, la narrativa cambiò drasticamente: i detriti appartenevano a un pallone meteorologico, e il maggiore Marcel fu fotografato con i resti di questo pallone per smentire la storia.

La spiegazione ufficiale: il progetto Mogul
Per decenni, la spiegazione del pallone sonda rimase quella ufficiale, ma non convinse mai del tutto la comunità ufologica. Solo negli anni '90, l'US Air Force declassificò una serie di documenti che rivelarono la vera natura dell'oggetto: si trattava di un pallone ad alta quota del Progetto Mogul, un programma militare top-secret volto a monitorare eventuali test nucleari sovietici tramite sensori acustici trasportati da palloni stratosferici. I materiali dei detriti trovati da Brazel (stagnola riflettente, nastro adesivo con simboli, travi di balsa) erano perfettamente compatibili con quelli usati per questi palloni.

La nascita di un mito
La segretezza che circondava il Progetto Mogul, unita alla ritrattazione frettolosa e poco convincente dell'esercito, creò un terreno fertile per le teorie del complotto. Negli anni successivi, testimoni (spesso con ricordi emersi decenni dopo) iniziarono a parlare di corpi alieni e navicelle intatte, alimentando un mito che è cresciuto a dismisura, culminando in libri, film e persino nel famoso video dell' "autopsia aliena" (poi rivelatosi un falso). La spiegazione del Progetto Mogul, sebbene meno eccitante, è supportata da prove documentali e offre un quadro coerente di come un incidente militare segreto sia stato interpretato come un evento extraterrestre.

Il caso Roswell è un esempio perfetto di come la segretezza governativa e il desiderio umano di credere nello straordinario possano creare una leggenda quasi indistruttibile. Sebbene le prove indichino una spiegazione convenzionale legata allo spionaggio della Guerra Fredda, il disco volante di Roswell continua a vivere nell'immaginario collettivo, a testimonianza del fascino intramontabile dei misteri dello spazio e della domanda "siamo soli?".

 
 
Di Alex (pubblicato @ 09:00:00 in Fantascienza-Misteri, letto 15 volte)
Il celebre fotogramma del filmato di Patterson-Gimlin del 1967, che mostra la presunta creatura Bigfoot mentre cammina nella foresta.
Il celebre fotogramma del filmato di Patterson-Gimlin del 1967, che mostra la presunta creatura Bigfoot mentre cammina nella foresta.

Il Bigfoot, o Sasquatch, è una delle figure più radicate nel folklore nordamericano e un caposaldo della criptozoologia. Nonostante decenni di presunti avvistamenti, impronte e filmati sgranati, la comunità scientifica rimane scettica. Ma quali sono le "prove" a sostegno della sua esistenza, e perché la scienza non le ritiene sufficienti? Analizziamo il fenomeno in modo critico e obiettivo, al di là del mito. ARTICOLO COMPLETO

Le prove principali: filmati e impronte
La prova più famosa a favore del Bigfoot è il filmato girato da Roger Patterson e Bob Gimlin nel 1967 a Bluff Creek, in California. Il breve filmato mostra una figura alta e pelosa che cammina con andatura bipede. Sebbene iconico, il filmato è molto controverso: molti esperti di effetti speciali e anatomisti ritengono che si tratti di un uomo in un costume, evidenziando incongruenze nella muscolatura e nel movimento. Altre prove comuni sono le grandi impronte ritrovate nelle foreste. Tuttavia, la maggior parte di queste si è rivelata essere opera di burloni o errate identificazioni di tracce di animali noti (come orsi) deformate dal terreno.

L'analisi del DNA e l'assenza di fossili
Negli ultimi anni, sono stati condotti diversi studi genetici su presunti campioni di peli e tessuti di Bigfoot. Un'analisi completa del 2014, guidata dal genetista Bryan Sykes dell'Università di Oxford, ha esaminato decine di campioni provenienti da tutto il mondo. I risultati sono stati deludenti per i sostenitori del Bigfoot: la maggior parte dei campioni apparteneva a orsi, lupi, mucche e altri animali conosciuti. Un altro grande ostacolo per la tesi del Bigfoot è la totale assenza di prove fossili. Per una popolazione di primati di grandi dimensioni possa sopravvivere e riprodursi per secoli, dovrebbe lasciare tracce nel record fossile, cosa che non è mai avvenuta.

Dal punto di vista scientifico, non esiste alcuna prova credibile che supporti l'esistenza del Bigfoot. Le prove aneddotiche, i filmati sfuocati e le impronte non reggono a un'analisi rigorosa. Il fenomeno Bigfoot è meglio compreso come un potente mito moderno, un prodotto del folklore, della psicologia umana (la pareidolia, il desiderio di credere) e della vastità selvaggia del continente nordamericano. Rappresenta il nostro fascino per l'ignoto e per l'idea che, forse, non abbiamo ancora scoperto tutto.

 
 
Il nuovo Google Pixel Tablet 2 agganciato magneticamente a una tastiera con design fluttuante, simile a quella della Magic Keyboard di Apple.
Il nuovo Google Pixel Tablet 2 agganciato magneticamente a una tastiera con design fluttuante, simile a quella della Magic Keyboard di Apple.

Google rinnova la sua offerta nel mercato dei tablet con il Pixel Tablet 2, un dispositivo che punta a colmare le lacune del suo predecessore. La novità più eclatante è una cover con tastiera e trackpad dal design "fluttuante", che trasforma il tablet in un vero e proprio laptop. Sotto la scocca, il nuovo chip Tensor G5 e un display OLED da 120Hz completano un pacchetto pensato per la produttività e l'intrattenimento. ARTICOLO COMPLETO

Da tablet a laptop: la nuova tastiera
Abbandonando la semplice dock di ricarica del primo modello, Google introduce per il Pixel Tablet 2 una tastiera-cover che si ispira chiaramente alla Magic Keyboard di Apple. Il tablet si aggancia magneticamente e "fluttua" sopra la tastiera, permettendo di regolare l'angolo di visualizzazione. La tastiera è retroilluminata e include un ampio trackpad con supporto per le gesture multi-touch di Android 16. Questo accessorio, venduto separatamente, mira a trasformare il dispositivo in uno strumento di lavoro versatile, capace di competere con i convertibili Windows e gli iPad Pro.

Hardware potenziato per l'IA
Il Pixel Tablet 2 è alimentato dal nuovo chip Google Tensor G5, lo stesso che equipaggerà i futuri Pixel 10. Questo processore è ottimizzato per le funzionalità di intelligenza artificiale, accelerando operazioni come il fotoritocco con Magic Editor, la traduzione istantanea e le nuove funzioni multitasking di Android 16. Il display passa dalla tecnologia LCD a un pannello OLED da 11 pollici con refresh rate a 120Hz, garantendo neri assoluti e una fluidità superiore. La batteria promette fino a 12 ore di riproduzione video, con supporto per la ricarica rapida a 45W.

Con il Pixel Tablet 2, Google dimostra di voler fare sul serio nel mercato tablet. L'introduzione di una tastiera di alta qualità e l'aggiornamento a un display OLED con hardware di punta lo rendono un dispositivo molto più maturo e appetibile. Se il prezzo rimarrà competitivo, potrebbe finalmente rappresentare quella valida alternativa Android all'iPad che molti utenti stavano aspettando.

 
 
Il Kenbak-1, progettato nel 1971, è riconosciuto come il primo personal computer al mondo.
Il Kenbak-1, progettato nel 1971, è riconosciuto come il primo personal computer al mondo.

La narrazione comune colloca la nascita del personal computer a metà degli anni '70, con l'Apple II o il kit dell'Altair 8800. Ma la storia è diversa. Il primo vero PC è nato prima, nel 1971, in un'epoca dominata da mainframe grandi come stanze. Si chiamava Kenbak-1 e fu il frutto della visione di un uomo che immaginò un computer per l'individuo prima ancora che esistesse il microprocessore. ARTICOLO COMPLETO



Nel 1986, il Computer Museum di Boston lanciò un concorso per determinare quale fosse stato il primo vero personal computer. Il vincitore non fu un prodotto di Apple o Microsoft, ma il Kenbak-1 di John Blankenbaker, un dispositivo che anticipò la rivoluzione informatica di diversi anni.

John Blankenbaker e la sua visione
All'inizio degli anni '70, i computer erano strumenti inaccessibili, riservati a governi e grandi aziende. In questo contesto, l'idea di un computer "personale" era a dir poco rivoluzionaria. John Blankenbaker, un ingegnere informatico, ebbe la visione di creare una macchina economica e accessibile, non per il business, ma per scopi educativi. Voleva uno strumento che potesse insegnare i principi della programmazione e della logica informatica. Lavorando da solo nel suo garage, progettò e costruì il computer, scrivendo anche tutti i manuali di riferimento. Il suo obiettivo era venderlo a 750 dollari, un prezzo incredibilmente basso per l'epoca.

Anatomia del primo PC: interruttori e luci
Il Kenbak-1 era un prodotto del suo tempo, un'epoca precedente all'invenzione del microprocessore. La sua architettura non era basata su un singolo chip CPU, ma su circuiti integrati a piccola e media scala (SSI e MSI). La sua memoria era di soli 256 byte. Ma la caratteristica più distintiva era la sua interfaccia: non c'erano né schermo né tastiera. L'input veniva inserito tramite una serie di interruttori sul pannello frontale, e l'output veniva letto attraverso una fila di luci. Per usarlo, bisognava "parlare" con la macchina nel suo linguaggio nativo, il binario. Questo lo rendeva uno strumento educativo potente, ma anche incredibilmente ostico per chiunque non fosse un appassionato.

Il fallimento commerciale e l'arrivo dell'Altair
Nonostante la visione pionieristica, il Kenbak-1 fu un fallimento commerciale. Blankenbaker riuscì a vendere solo una quarantina di unità prima di chiudere l'azienda nel 1973. Il suo prodotto era arrivato troppo presto, prima che si formasse una vera cultura hobbistica attorno all'informatica. Il successo arrise invece, nel 1975, al MITS Altair 8800. Basato sul nuovo microprocessore Intel 8080 e presentato come un kit da assemblare sulla rivista "Popular Electronics", l'Altair catturò l'immaginazione di una nascente comunità di appassionati di elettronica, generando migliaia di ordini e dando il via alla rivoluzione. Il suo successo fu tanto culturale e di marketing quanto tecnologico.

Sebbene dimenticato per anni, il Kenbak-1 si è guadagnato il suo posto nella storia. Non fu un successo, ma rappresentò la prima, coraggiosa incarnazione fisica dell'idea di un computer per l'individuo. Fu un passo fondamentale, un'intuizione geniale che anticipò di anni la rivoluzione che avrebbe cambiato per sempre il nostro mondo, dimostrando che le grandi idee spesso precedono la tecnologia e il mercato necessari per realizzarle.

 
 
Un'immagine macro di un processore futuristico con chiplet ottici che emettono deboli fasci di luce, interconnessi da guide d'onda fotoniche.
Un'immagine macro di un processore futuristico con chiplet ottici che emettono deboli fasci di luce, interconnessi da guide d'onda fotoniche.

La legge di Moore sta raggiungendo i suoi limiti fisici, ma una nuova tecnologia promette di aprire un'era di performance inimmaginabili: i chiplet ottici. Sostituendo le connessioni elettriche tra i core di un processore con impulsi di luce, la fotonica del silicio potrebbe eliminare i colli di bottiglia della comunicazione dati, portando a un'efficienza energetica e a una velocità di calcolo ordini di grandezza superiori a quelle attuali. ARTICOLO COMPLETO

Il problema del "muro di memoria"
Nei processori moderni, la velocità di calcolo dei singoli core è aumentata esponenzialmente, ma la velocità con cui questi core possono comunicare tra loro e con la memoria (la larghezza di banda) non ha tenuto il passo. Questo crea un "muro di memoria", un collo di bottiglia che limita le prestazioni complessive, specialmente nei carichi di lavoro dell'intelligenza artificiale e dell'analisi di big data. Le connessioni elettriche in rame, infatti, consumano molta energia, generano calore e perdono integrità del segnale su distanze anche minime all'interno di un chip.

La soluzione: comunicare con la luce
La fotonica del silicio propone di risolvere questo problema incidendo minuscole "guide d'onda" direttamente sul silicio, creando dei veri e propri circuiti ottici. Invece di elettroni che si muovono attraverso fili di rame, sono i fotoni (particelle di luce) a viaggiare in queste guide. I vantaggi sono enormi: la luce viaggia più velocemente, non genera calore per resistenza, non subisce interferenze elettromagnetiche e può trasportare molti più dati contemporaneamente utilizzando diverse lunghezze d'onda (colori) sulla stessa guida.

Dai laboratori ai data center
Aziende come Intel, Ayar Labs e GlobalFoundries stanno già producendo i primi prototipi di processori con chiplet ottici. Questi "co-packaged optics" integrano i componenti fotonici direttamente accanto ai chip di calcolo. Un recente prototipo presentato su Nature ha dimostrato una larghezza di banda di interconnessione superiore di dieci volte rispetto alle migliori soluzioni elettriche, con un consumo energetico ridotto del 95%. Sebbene la tecnologia sia ancora costosa, il suo primo campo di applicazione saranno i data center, dove l'efficienza energetica e la velocità di calcolo sono cruciali.

I chiplet ottici non sono più fantascienza. Rappresentano la prossima, inevitabile evoluzione dell'hardware per il calcolo ad alte prestazioni. Sostituendo i fili con la luce, questa tecnologia promette di abbattere le barriere che oggi limitano la potenza dei nostri computer, aprendo la strada a modelli di IA più complessi, simulazioni scientifiche più accurate e un'infrastruttura cloud più veloce ed efficiente dal punto di vista energetico.

 
 

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